venerdì 7 dicembre 2012

perdersi a guardare




La mia storia ‘fotografica’ nasce in modo inconsapevole, come molte delle cose che mi sono successe. Semplicemente mi affascinavano questi pezzetti di carta sui quali si riproduceva la realtà, o meglio quello che sembrava una parte di realtà. Nei sogni di bambino immaginavo che il fotografo fosse una specie di mago che con delle forbici speciali fosse capace di tagliare le immagini direttamente dall’etere nel punto in cui si fosse posato il suo sguardo: senza neanche bisogno della macchina. Il mezzo (anch’esso magico) con cui invece questo avveniva era la macchina di mio padre: AGFA OPTIMA II; un inizio molto banale come in fondo sarà capitato a molti.
Anni dopo avrei capito che era una telemetro economica e quello era uno dei motivi per cui sbagliavo molte delle mie foto.

Papà comprava i libri del Qui Touring, quelli delle capitali del mondo: meravigliosi. La parte turistica delle città era a colori; la parte di reportage era in bianco e nero. Li sfogliavo per ore ed ore. Anni dopo, quando ho avuto la fortuna di essere in alcune di quelle città, era come se ci fossi già stato. C’era poi un nostro amico di famiglia che aveva un catalogo pubblicitario Zeiss con delle foto dimostrative. Anche quello era mandato a memoria per ore.

Nel 1979, per puro caso, vado alla Biennale di Venezia, sezione fotografia. C’era una retrospettiva sui fotografi americani e sugli Stati Uniti. Altro passo in avanti,  iniziaii a capire il senso profondo del bianconero.  

Poi arrivò l’Università e quindi un periodo di sospensione quasi totale della mia passione. Col primo lavoro, comprai la reflex e ritornai a fotografare. Conobbi mia moglie e quindi l’amore sublimò in immagini. Che meraviglia! Potrei enumerare tutte le foto che feci una a una: le ricordo in modo esclusivo. La nostra vita è un vortice di immagini bellissimo. 

Lentamente però mi accorsi che la mia attenzione si riportava verso la fotografia, intesa come espressione di un senso artistico. Allora ri-cominciai a leggere ed a documentarmi. Passai attraverso Avedon, Roiter, Newton, Sieff, Fontana, Giacomelli, Adams, Bordin, Cartier-Bresson, Ghirri, Warhol. . . fino ad arrivare a David Lachapelle ed altri contemporanei.
La mia cultura fotografica è stata ed è disordinata, ma è stato comunque un percorso lungo.

Poi l’avvento del digitale. Per me fu un’epifania: essendo stato da sempre un amante di computer e di sviluppi digitali (per lavoro e per passione), il passaggio a questo mezzo fu naturale.

Ritrovai allora il piacere della camera chiara, giacché mi ero perso quella oscura, e iniziai a sperimentare. Questa volta mia moglie ed i nostri bambini (ora sono dei ragazzi) mi aiutarono e furono (lo sono ancora) miei complici. Realizzai il progetto eucromia che raccoglie la mia produzione digitale/colore. 

Sperimentai, provai, costruii scatole in cui racchiusi oggetti semplici . . . .

Nel frattempo mi accorsi di una nuova maturazione che stava avvenendo: il numero di scatti fotografici diminuiva e aumentava il pensiero che formulavo prima di fotografare.

In questa ricerca, continuo ad informarmi a leggere . . .  e finalmente mi fermo: arrivo a Gabriele Basilico e Mimmo Jodice.

Molti mi avevano parlato: “Ma come, non conosci le foto di Mimmo Jodice ?!”.
In alcuni momenti ero preoccupato dall’ostentazione di una certa cultura fotografica. Io volevo arrivarci con lentezza, capire perché quelle foto avevano avuto un’eco così vasta. In qualche modo, mi sono voluto conservare, meritare quel momento in cui avrei affondato gli occhi in quella visione.

Quando questo è avvenuto, sono rimasto letteralmente incantato. 
Incantamento è la parola più adatta.

Ho letto molto, sull’assenza della presenza umana nei lavori di Jodice (sconfessati poi dall'ultima del Louvre dove gli occhi e i volti hanno un ruolo centrale), sulla metafisica dei paesaggi, ma queste interpretazioni ad un certo punto non mi hanno più interessato. 

Per dirla banalmente, l’emozione a volte non va spiegata. A volte devo evitare di guardare queste  foto perché, realmente mi incanto. Resto fermo a guardarle in silenzio per un tempo che non saprei quantificare. 
La visione sospende l’elaborazione, o meglio la trasforma, la sposta verso altri sentieri mentali.

“Perdersi a guardare” è un titolo perfetto per il lavoro complessivo, la opera omnia. Un perdersi che non è il morire ma è lo sciogliersi nel mistero, nell’oltre. Senza paura.
Quella sedia a sdraio di fronte al mare, la statua con la testa dilaniata dal tempo ma ancora dignitosa, quell’aliscafo nel mare scuro, . . . . sono immagini che si piantano nell’inconscio anzi lo stuzzicano e lo provocano. 
E non c’è verso: bisogna solo abbandonarsi.

Quando ebbi il piacere di stringergli la mano a teatro, vidi i suoi occhi e capii da dove nascono le sue foto. Oltre a essere bellissimi, come il suo volto, c’è un senso di curiosità, una curiosità innocente, che forse conferisce il senso a quella che è stata poi la ricerca artistica. 




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