Quando la palla mi arrivò lentamente, quasi a centrocampo, nessuno
poteva immaginare ciò che sarebbe successo. Nessuno, tantomeno io, avrebbe
giurato che da quell’attimo in poi, per i successivi attimi che avrebbero alla
fine composto dieci secondi, la mia vita
sarebbe stata scritta. E con lei la storia dello sport giocato su un prato
verde, dove ventidue uomini cercano di infilare con un pallone, due rettangoli
d’aria demarcati da legni bianchi.
Dieci furono le
volte che toccai il pallone, e dieci
era il numero che avevo su quella maglia bianca e azzurra che vestivo sempre
con orgoglio. Contro gli inglesi poi !
Guardavo alternativamente davanti, verso il campo che
ancora mi rimaneva da percorrere, e poi tra le gambe, per paura di perdere il
contatto con il pallone e la direzione che avevo scelto. E’ chiaro che non
pensavo di poter fare ciò che invece successe. Creavo in ogni istante ciò che
sarebbe stato l’istante immediatamente dopo.
In quei piccoli tocchi, mi proponevo solo il traguardo
successivo. Il centrocampista da scartare con una finta, allargare la direzione, stringere
sulla destra dell’area, controllare un rientro, una finta ancora.
Ogni tocco del sinistro era un mattone in più nella casa che
stavo costruendo.
Ogni tocco in più sentivo che lo stadio intero in un’apnea
collettiva mi seguiva, e mi chiedevo quanto ancora sarebbe durata. Il difensore
avrebbe potuto falciarmi con un tackle scivolato, avrei potuto perdere il
contatto con il pallone per un allungo male calcolato, avrei potuto non avere
più il fiato necessario, . . . non successe nulla che potesse arrestare la mia
corsa verso la rete.
Dieci volte carezzai il pallone, e solo quando lo depositai
in rete, prima fintando il tiro e poi beffando anche il portiere, mi resi conto di quello che veramente era successo.
La palla passò vicino al palo destro, mentre io già correvo ad
esultare.
In una torrida giornata estiva, durante un campionato del
mondo, avevo firmato la più bella azione solitaria mai compiuta prima da alcun
giocatore.
Il boato della folla mi trovò preparato e subito la mia vanità prese il sopravvento e cominciai ad ostentare con esuberanza la soddisfazione e la gioia di cui solo un numero 10 è capace.
Nel profondo di me avrei voluto invece che la partita, e con
lei la vita stessa, terminassero lì in quel momento. Avrei voluto prendere il
pallone e distruggerlo poiché sapevo che dopo di me nulla sarebbe più stato uguale.
Invece sopravvissi al mio gesto.
Invece sopravvissi al mio gesto.
La mia vita continuò e il tutto non poté essere altro che inevitabile mediocrità.
Cercai in qualche modo di compiere altri gesti che in qualche modo fossero simili a quei dieci secondi. Ma quelle condizioni non si sarebbero mai più ripetute.
In quel momento avevo l’età e la superbia giusta per pensare e tentare un’azione del genere.
In quegli istanti, infatti, non ho mai pensato di
smarcare qualche compagno, e mai di liberarmi per sicurezza
del pallone lanciandolo in avanti: sapevo che potevo sciupare tutto ma sapevo anche che non dovevo accontentarmi. Correvo per la gloria
Osai il massimo che un giocatore di
calcio possa immaginare: arrivare da solo fino alla porta avversaria. Mandai
all’aria schemi di gioco, marcature, teorie, moduli a zona, a uomo: non
esisteva più nulla.
Esisteva solo l’individuo che insegue un sogno.
Esisteva solo l’individuo che insegue un sogno.
La mia vita è stata quel sogno: quei dieci, eterni, secondi.
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