venerdì 30 agosto 2013

modernità liquida (z. bauman)


All'epoca dell' Illuminismo, di Bacone, Cartesio o Hegel, in nessun luogo della terra il livello di vita era più che doppio rispetto a quello delle aree più povere. Oggi il paese più ricco, il Qatar, vanta un reddito pro capite 428 volte maggiore di quello del paese più povero, lo Zimbabwe. E si tratta, non dimentichiamolo, di paragoni tra valori medi, che ricordano la proverbiale statistica dei due polli.

Il tenace persistere della povertà su un pianeta travagliato dal fondamentalismo della crescita economica è più che sufficiente a costringere le persone ragionevoli a fare una pausa di riflessione sulle vittime collaterali dell' «andamento delle operazioni».

L'abisso sempre più profondo che separa chi è povero e senza prospettive dal mondo opulento, ottimista e rumoroso - un abisso già oggi superabile solo dagli arrampicatori più energici e privi di scrupoli - è un' altra evidente ragione di grande preoccupazione. Come avvertono gli autori dell'articolo citato, se l'armamentario sempre più raro, scarso e inaccessibile che occorre per sopravvivere e condurre una vita accettabile diverrà oggetto di uno scontro all'ultimo sangue tra chi ne è abbondantemente provvisto e gli indigenti abbandonati a se stessi, la principale vittima della crescente disuguaglianza sarà la democrazia.

Ma c' è anche un' altra ragione di allarme, non meno grave. I crescenti livelli di opulenza si traducono in crescenti livelli di consumo; del resto, arricchirsi è un valore tanto desiderato solo in quanto aiuta a migliorare la qualità della vita,e «migliorare la vita» (o almeno renderla un po' meno insoddisfacente) significa, nel gergo degli adepti della chiesa della crescita economica, ormai diffusa su tutto il pianeta, «consumare di più». I seguaci di questo credo fondamentalista sono convinti che tutte le strade della redenzione, della salvezza, della grazia divina e secolare e della felicità (sia immediata che eterna) passino per i negozi. E più si riempiono gli scaffali dei negozi che attendono di essere svuotati dai cercatori di felicità, più si svuota la Terra, l' unico contenitore/produttore delle risorse (materie prime ed energia) che occorrono per riempire nuovamente i negozi: una verità confermata e ribadita quotidianamente dalla scienza, ma (secondo uno studio recente) recisamente negata nel 53 per cento degli spazi dedicati al tema della «sostenibilità» dalla stampa americana, e trascurata o taciuta negli altri casi. Quello che viene ignorato, in questo silenzio assordante che ottenebra e de-responsabilizza, è l' avvertimento lanciato due anni fa da Tim Jackson nel libro Prosperità senza crescita: entro la fine di questo secolo «i nostri figli e nipoti dovranno sopravvivere in un ambiente dal clima ostile e povero di risorse, tra distruzione degli habitat, decimazione delle specie, scarsità di cibo, migrazioni di massa e inevitabili guerre».

Il nostro consumo, alimentato dal debito e alacremente istigato/ assistito/amplificato dalle autorità costituite, «è insostenibile dal punto di vista ecologico, problematico da quello sociale e instabile da quello economico». Un' altra delle osservazioni raggelanti di Jackson è che in uno scenario sociale come il nostro, in cui un quinto della popolazione mondiale gode del 74 per cento del reddito annuale di tutto il pianeta, mentre il quinto più povero del mondo deve accontentarsi del 2 per cento, la diffusa tendenza a giustificare le devastazioni provocate dalle politiche di sviluppo economico richiamandosi alla nobile esigenza di superare la povertà non è altro che un atto di ipocrisia e un' offesa alla ragione: e anche questa osservazione è stata pressoché universalmente ignorata dai canali d' informazione più popolari (ed efficaci), o nel migliore dei casi è stata relegata alle pagine, e fasce orarie, notoriamente dedicate a ospitare e dare spazio a voci abituate e rassegnate a predicare nel deserto.

Già nel 1990, una ventina d' anni prima del volume di Jackson, in Governare i beni collettivi Elinor Ostrom aveva avvertito che la convinzione propagandata senza sosta secondo cui le persone sono naturalmente portate a ricercare profitti di breve termine e ad agire in base al principio «ognun per sé e Dio per tutti»non regge alla prova dei fatti. La conclusione dello studio di Ostrom sulle imprese locali che operano su piccola scala è molto diversa: nell'ambito di una comunità le persone tendono a prendere decisioni che non mirano solo al profitto. È tempo di chiedersi: quelle forme di «vita in comunità» che la maggior parte di noi conosce unicamente attraverso le ricerche etnografiche sulle poche nicchie oggi rimaste da epoche passate, «superate e arretrate», sono davvero qualcosa di irrevocabilmente concluso? O, forse, sta per emergere la verità di una visione alternativa della storia (e con essa di una concezione alternativa del "progresso"): che cioè la rincorsa alla felicità è solo un episodio, e non un balzo in avanti irreversibile e irrevocabile, ed è stata/è/si rivelerà, sul piano pratico, una semplice deviazione una tantum, intrinsecamente e inevitabilmente temporanea?

Dalla prefazione di Zygmunt Bauman alla nuova edizione di Modernità Liquidità, Laterza.

domenica 25 agosto 2013

18262 giorni

18262 giorni: 50 anni insomma.
Potrei scriverne, potrei raccontare episodi, emozioni, sconfitte, qualche successo. Ma sarebbe molto difficile, non essendo uno scrittore, le inevitabili approssimazioni offenderebbero in primo luogo me stesso, i miei sentimenti, i miei accadimenti. E poi ogni vita passa con la sua unicità, con la sua eccezionalità. La mia come quella di tutti.

Una cosa posso dire però: ho imparato - sto imparando ancora - a essere felice.

Ho capito con gli anni che anche quelli che potrebbero, spesso, dimenticano che la felicità è una conquista. Non è un pacco che si scarta subito per vedere il regalo.

La felicità è un viaggio, un cammino. Lungo questa strada, generalmente, si deve togliere, eliminare, alleggerirsi per far spazio a ciò che è essenziale e con gli anni diventa sempre più chiaro. Lungo questa strada si incontrano persone che fanno un pezzo con te: lungo o grande non ha importanza. Un mio amico mi ricordava giorni fa una frase di V. de Moraes: “la vita è l’arte dell’incontro”.

Continuo a fare i miei progetti, a elaborare visioni per il futuro. So che molte non verranno realizzate per la mia pigrizia.  Ma la cosa che mi piace di più è andare avanti per questa strada in compagnia delle persone che amo, possibilmente offrendo un sorriso al mio, al nostro futuro.

Vale la pena di fermarsi solo a guardare il mare, una nuvola. O magari una rosa.

giovedì 22 agosto 2013

come ti vorrei (di anna mittone)

Ultimo libro di questa estate. Anche questo ho avuto il piacere di riceverlo in anteprima.
“Come ti vorrei” è un viaggio interiore. 
Un viaggio a volte buffo, a volte tenero, a volte comico. I registri si alternano per raccontare, anzi è la protagonista che lo fa in prima persona, un viaggio  che si tiene tra Roma e Torino ancorato a una festa. Francesca, è il nome della protagonista, utilizza l’invito ad una festa di amici del liceo, la rimpatriata che tutti temono e desiderano contemporaneamente, per provare a rimettere insieme alcune tessere della sua vita. Non solo quelle passate ma, in modo quasi inaspettato, anche quelle future. 

Il romanzo scivola con una sua propria, definita leggerezza che cattura subito. Francesca, ben presto, diventa un’eroina a cui si vuol bene, per questa sua voglia di cercare di dare un senso a certe attese, di dare risposte a certi quesiti. 
Francesca sa che non può più rimandare la definizione di alcuni punti, e si avventura in un territorio di sé che potrebbe non piacerle. Si mette in gioco completamente, per la prima volta, per capire finalmente se vivere, accontentandosi, una vita ‘tranquilla’ oppure se nella stessa vita lei possa riconsiderare una parola come ‘emozione’. E ci porta con sé.

Francesca cerca uno sguardo nuovo sul mondo ma soprattutto su se stessa. Non cela più le sue fragilità ma le considera lentamente come parte della sua vita per poi usarle come punto di partenza per un cambiamento.

Un bacio mai dato, una festa, una Panda, la neve che scende copiosa, telefoni cellulari scarichi, la sala di un pronto soccorso sono eventi e oggetti che diventano luoghi e momenti centrali assieme a molte citazioni musicali. Queste ultime sono contrappunti molto riusciti.

Il modo con cui il linguaggio alterna dei momenti di pura confessione ad altri in cui si descrivono ricordi, situazioni, possibilità, cattura e rende la lettura un vero piacere. Sembra sempre che la storia stia virando verso qualcosa di banale e invece.
Invece ogni volta c’è uno scarto, una piccola variazione che testimonia come Francesca si stia avvicinando al centro della sua ricerca, sempre più consapevolmente.

Segnatevi questo libro per i vostri acquisti di Settembre: Francesca è un personaggio che non si dimentica.

Buona Lettura

sabato 17 agosto 2013

orgoglio

Dei sette vizi capitali, l'orgoglio è il peggiore. 
Rabbia, avarizia, invidia, lussuria, accidia, gola, riguardano il rapporto degli uomini tra di loro e con il resto del mondo. 

L'orgoglio, invece, è assoluto. È la rappresentazione della relazione soggettiva che una persona intrattiene con se stessa. 
Quindi, tra tutti, è il più mortale. L'orgoglio non ha bisogno di un oggetto di cui essere orgogliosi. 

È narcisismo portato all'estremo. 

P. K. Dick, "Do the androids dream electric sheeps ?"

giovedì 15 agosto 2013

tutto sembra senza limite

"Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita - forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la luna - forse venti - eppure tutto sembra senza limite."

Il tè nel deserto, Paul Bowles




lunedì 12 agosto 2013

serve a qualcosa ?

Oggi ho letto il post di Roberto Cotroneo (@robertocotroneo) a cui ha fatto seguito quello di Giuliano Castigliego (@giulicast) che a sua volta rimandava anche a questa lettura di Serena Danna (@serena_danna).

Scambio interessantissimo.

Argomento complesso al quale so rispondere solo con molte, moltissime difficoltà. Ma ci provo.

Posso raccontare che mentre ho avuto subito un rigetto per FB dove tutto è troppo, su twitter mi sono trovato abbastanza bene.
Credo sia stato il solito mix di fortuna, volontà e casualità che mi ha consentito di avere un gruppo di persone da cui sono seguito e/o che seguo che mi arricchiscono.
Non sempre allo stesso modo e non sempre con cadenza costante, ma la crescita l'avverto: è palpabile. Poi - certo - ci sono i momenti di stanca in cui ti sembra tempo perso, tempo rubato ad altro, ma anche quella criticità serve a pulire, a capire, a rifinire.

Non mi sono accontentato però. Con alcuni mi sono incontrato, con altri abbiamo scambiato i numeri di telefono, ci siamo parlati; altri account mi sono stati utili per ritornare a leggere cose che avevo lasciato nel dimenticatoio e che invece mi faceva piacere riprendere.

Cotroneo dice: "È un mostrarsi senza voler vedere, è un essere senza esistere.".
Esiste questo rischio, non si può dubitarne.
Così come si può avere una persona davanti per 20 anni con la quale si condivide un ufficio, un lavoro e accorgersi che non si sa nulla di lei.
Si può essere senza esistere dovunque: dipende da cosa ci si mette di proprio. La capacità di essere senza esistere non dipende dal social ma dalla nostra abilità nel nascondere l'umano: spesso troviamo superuomini e superdonne che non rendono mai conto di un fallimento, di una difficoltà oppure al contrario non comunicano mai una gioia intima, un'emozione. Fuori e dentro dei social. Hanno costruito esoscheletri di finta perfezione con la quale si muovono nel mondo reale e virtuale.

Invece io cerco l'umano, il simile a me, colui o colei che manifesta le sue debolezze, le sue difficoltà così come i suoi momenti felici.
Ho trovato personalmente più attenzione in certi tweet diretti a me che in alcune strette di mano fasulle di chi si interessa solo con modi di circostanza o convenienza.

Ed ancora "Serve davvero a qualcosa?".
Serve se si è disposti laddove possibile e con le persone selezionate a mettersi in gioco. Twitter come qualsiasi altro social network non deve diventare la gabbia nella quale ognuno si maschera, ma deve, dovrebbe, portare al momento di un rivelamento. Non con tutti, non sempre: questo è quello che sto provando a fare.

Twitter appare senza dubbio come il solito calderone nel quale si trova l'autopromozione, il narcisismo debordante, le personalità rilucidate per l'occasione, la retorica a buon mercato e non richiesta, il surrogato insopportabile di concetti e pensieri, l'ostentazione ripetuta di autoritratti (meglio noti come selfie).

Ma si trovano anche sofferenze che cercano ascolto, preghiere palesi e preghiere inespresse, desideri manifesti, vere e proprie ricerche linguistiche (vedi il lavoro di #scritturebrevi di Francesca Chiusaroli, @fchiusaroli). A questo aspetto sono molto legato.

Certi tweet, poi, sono come finestre aperte per pochi istanti sulla vita di persone che mettono a disposizione qualcosa di sé.
Tutto sta nel cogliere, capire e partecipare.

Sensibilità, è sempre un fatto di sensibilità.

domenica 11 agosto 2013

giardini

Grazie al mio amico Giuliano Castigliego, scopro questo libro delizioso: Giardini.
Una rilettura della condizione umana attraverso i giardini e in generale l'amore per il mondo vegetale.
La digressione a tratti saggistica, a tratti filosofica, ruota attorno al concetto di 'cura', ovvero la specificità dell'uomo che ha avuto come mandato quello di 'aver cura' del creato.
Chi ha mai curato una pianta, un giardino, un orto sa bene che questo è il concetto centrale. 'Cura' che poi diventa sinonimo di rispetto, di lentezza, di comprensione di ciò che è necessario ma vitale e di ciò che invece è inutile, superfluo.

Giardini è scritto in forma leggera come se si stesse attraversando un giardino, passeggiando nella storia e godendo di ogni sfumatura del paesaggio. Sembra quasi di poter percepire i profumi nel mentre gli anni scorrono e i concetti fluiscono.

Quanti peccati sono stati commessi nei tempi recenti per non aver voluto aver 'cura' di ciò che siamo, di ciò che potevamo essere ?

La storia recente italiana, la distruzione della scuola pubblica, la riduzione complessiva della spesa per la ricerca universitaria, la legge Bossi-Fini, l'incessante crescita di un modo banale di affrontare problemi sono tutte attestazioni di una mancata 'cura'. A cui tutti, in varia misura, abbiamo contribuito.
Mi piacerebbe rileggere gli ultimi 30 anni nostri come quelli di un giardino che è stato lasciato incolto, senza cura, e ora le piante selvatiche hanno cancellato il disegno originario, le sterpaglie nascondono le antiche piante ornamentali, il primigenio disegno.
Ognuno di noi dice all'altro: "Toccava a te !". E nessuno si rendo conto che siamo quasi per essere soffocati.
Il giardino, il nostro giardino, aspetta solo che ognuno, singolarmente e per quel che gli compete, ricominci a curare ciò che gli spetta.

Buona Lettura

Dio onnipotente fu il primo a piantare un giardino; 
ed è, veramente, il più puro fra i piaceri dell'uomo.
(Francis Bacon)

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Rai 5 ha trasmesso uno speciale nell'ambito di 5 trasmissioni del programma di Serena Dandini:
Il Paradiso è Perduto ? Se avete tempo ascoltatela tutta, ci sono anche il teologo Vito Mancuso e il disegnatore Makkox.

Qui invece c'è una recensione completa: Articolo su Repubblica.

martedì 6 agosto 2013

betty (roberto cotroneo)


Ho da poco chiuso "Betty". Sono ancora frastornato. 
In un’opera così complessa, non ho trovato un difetto, uno smusso mal riuscito, un aggettivo fuori posto: nulla.

Una vertigine, questo è “Betty”. Anzi la vertigine di una vertigine. Mentre leggevo mi tornavano nella mente le immagini di "Vertigo" e di "Spellbound". Non per i temi ma per il modo. Si cita Fellini ma quell'Hitchcock forse è il riferimento più adeguato.

Ma questo libro è ancora più complesso. Difficile anche da raccontare: sciuperei una trama intricata ma stupendamente intrecciata.
C’è un fotografo a cui si chiede di raccontare per guardare indirettamente.
C’è un libro che influenza le vite che a loro volta influenzano i libri.
C’è una donna che porta un nome che è come un doppio specchio.
C’è un autore, Simenon, che parla con la voce di Cotroneo ma che potrebbe essere quello autentico che a sua volta si specchia in un personaggio che specchia ulteriormente se stesso nell’autore.

E c’è il dolore, però. Indicibile. Così grande che diventa un peccato originale che nessuno è capace di scontare se non inabissandosi in se stesso e quindi perdendosi, come Betty appunto.

Non so quanto umanamente sia costato pensarlo e soprattutto scriverlo.
“Betty” è una lettura che scuote, non può lasciare indifferenti.

Anch'io conosco abbastanza Simenon, sia il Maigret sia il non-Maigret, ma con “Betty”, Cotroneo va lontano. Molto lontano. L’intera vicenda è il presupposto per una riflessione profonda sugli abissi dell’animo umano e sulla relazione tra autore e personaggi, ben nascosta dietro il velo dell’omicidio di una donna misteriosa.

La scrittura è nitida e in alcune pagine si vede, si percepisce, il mutare della luce. Come se la scrittura avesse una sua luce e si adeguasse all’intensità del momento. Indubbiamente la passione fotografica di Cotroneo/Simenon si capisce, ma ovviamente essere un buon fotografo non significa trovare facilmente quella “luce” nella scrittura.

Immergersi in un dolore così profondo e in un'assurdità banale ma allo stesso tempo così inspiegabile richiede anche grande coraggio nel cercare le parole per descrivere quest'orrore e allo stesso tempo smascherare (forse) questa apparente simbiosi vita/letteratura.

Leggere storie che non sono nostre non può forse trasformare le nostre vite ?

Ma i nostri grigi, i grigi delle nostre esistenze, sono intensi, belli quasi perfetti. E ce li teniamo i grigi, e ne siamo anche fieri’.

A pag. 178 c’è l’autoritratto di Cotroneo:
Tutto è in quegli occhi grigi di un mondo indifeso che non sono riuscito a salvare.

Buona lettura

domenica 4 agosto 2013

l'estate di pier andrea

Alcuni dei miei migliori amici li ho avuti (e li ho ancora) tra i gesuiti.
Uno di questi, Pier Andrea Todde, apparve nella nostra piccola comunità, come un pulcino bagnato. Proprio così: un pulcino bagnato. Umile, dimesso, silenzioso.
Era di Cagliari e il suo accento rendeva inutile la sua carta d'identità. Ci ritrovammo subito a parlare di come una persona come lui ad un solo esame dalla laurea in medicina, un ragazzo a cui le ragazze erano sempre piaciute, potesse ricevere una chiamata - come diceva lui - fortissima, diretta, chiara.

E quindi in tarda età, rispetto alla media, decise di dare seguito a questa vocazione tardiva.
Pier Andrea era un pulcino bagnato, fragile, tenero ma non quando parlava di Dio. In quel momento anche la sua minutezza fisica si trasformava, sembrava che veramente lo Spirito operasse in lui in modo preciso e limpido.

Aveva un modo di presentare l'azione di Dio che non era solo nelle parole che usava ma anche nei gesti,  negli sguardi, nei movimenti del suo corpo magro ma forte.

Nei pomeriggi assolati delle lunghe estati di quando la scuola finisce, spesso veniva a casa mia a sentire la musica che amava e a cui non poteva dare il giusto tempo (forse era il suo cruccio maggiore): John McLaughlin, Mahavishnu Orchestra, Weather Report . . . .

Poi crescendo ci siamo persi anche perchè come tutti i gesuiti si spostava in continuazione, mentre io mi avviavo verso gli anni importanti dell'università.
Qualche anno fa, incontrai amici comuni a cui chiesi immediatamente sue notizie.
Mi dissero che un brutto male lo aveva portato via.

In rete trovo questo suo scritto.
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“BEATI I PURI DI CUORE PERCHE’ VEDRANNO DIO” (Mt 5,8)
di Pier Andrea Todde S.J.

L’estate può essere vissuta come tempo in cui si cerca di raccogliere le forze, di ritemprare le energie fisiche, psichiche e spirituali spese durante l’anno. Il tempo dell’estate allora dovrebbe essere un tempo in cui trovare momenti privilegiati per una pacificazione e unificazione del cuore, laddove il cuore è la sede in cui risiede tutto il nostro mondo affettivo-spirituale, sede in cui possono ricomporsi in gioiosa armonia le relazioni vissute durante l’anno. Anche dal punto di vista organico-fisiologico il cuore è il centro della vita perché nel suo inesauribile lavoro fatto di innumerevoli e costanti movimenti sistolico-diastolici, consente che tutto l’organismo si rigeneri e si rinnovi in modo che il sangue irrori tutto il corpo.

Ritornare al cuore significa mettere ordine, dando senso e orientamento alle nostre relazioni. Se il nostro cuore è diviso e frammentato risulta che anche le nostre relazioni verranno di fatto vissute nella dispersione, nella superficialità o nella fretta. Il cuore, centro della vita affettiva ed emotiva; nel linguaggio comune si dice “cordiale” di una persona attenta, empatica, accogliente, che si muove in apertura e gratuità verso l’altro e che con l’altro entra facilmente in comunicazione. Anche per l’uomo biblico il cuore rappresenta il centro della vita personale, di relazione, la sede in cui Dio fa alleanza con l’uomo. Il cuore è la coscienza stessa della persona. Tornare al cuore indica un dinamismo interiore che consente all’uomo di rientrare in se stesso per aprirsi agli altri e a Dio in una vita vissuta nella verità e nella autenticità.

E’ nel cuore che avviene infine quel movimento di ritorno a Dio che viene chiamato col termine “conversione”.

Il modo di pregare naturale per una preghiera vissuta nel cuore, in un cuore che desideri di ridarsi a Dio, è l’esame di coscienza inteso non come analisi psicologica o come tempo per fare un bilancio moralistico della propria giornata.

Normalmente, se vissuto in tal modo, l’esame diventa il luogo in cui emerge facilmente il nostro narcisismo, il nostro autocompiacimento e anche il nostro autolesionismo.
La preghiera dell’esame di coscienza è soprattutto una preghiera di contemplazione e di vigilanza, una preghiera che consente una purificazione del nostro cuore che si affida progressivamente e gioiosamente al proprio Creatore.

Ritornare al cuore diventerà allora ri-cor-dare, cioè ridare il cuore a Dio perché sia Lui a guarirlo. Un cuore riconoscente e grato per le continue meraviglie che il Signore opera.

Ridare il cuore a Dio consente di irrobustirci nella fede perché non poniamo più le nostre preoccupazioni esclusivamente sulle nostre forze e non vedremo solamente i nostri limiti e le nostre fragilità, ma restituiremo tutto di noi al Cuore amante e misericordioso del Padre: Gesù Cristo.

(da “Piazza del Gesù, periodico della CVX Gesù Nuovo di Napoli, luglio-settembre 1990)

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Questa è per te, Pier Andrea. Per noi.