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domenica 13 marzo 2016

caffè

Indubbiamente la mia vita è stata accompagnata dai caffè.
La prima volta che arrivai a Napoli, per il primo giorno di liceo, mio padre, sempre riservatissimo e poco loquace, mi disse poche cose. Dove arrivava il treno, come si tornava indietro e dove dovevo prendere il caffè. Secondo lui, lo dovevo bere al Bar Mekico, giusto fuori Napoli Centrale, lato destro di Piazza Garibaldi. I napoletani sanno di cosa parlo.

Sono sempre stato un po' ipoteso e quindi il caffè mi era quasi necessario. Quel bar e quello di fronte al liceo sono stati i punti fissi del mio passaggio adolescenziale. A Napoli (ancora oggi lo sono) la pizza e il caffè erano economici e quindi con i pochi soldi che avevamo in tasca si riusciva durante la settimana a comprare qualche sigaretta, qualche pizza a portafoglio, ma almeno un caffè al giorno ci doveva essere.
Quello di casa, il primo, lo preparavo io stesso, per me e per i miei genitori, ma quello del bar a Napoli era il momento in cui veramente iniziava la giornata.

Questa passione proseguiva negli anni e cresceva invece di diminuire. Imparai a conoscere le miscele, a capire se il bar aveva le macchine giuste e in un certo senso ad apprezzare quello che ormai era diventato un rito.

Al IV liceo, ci fu un periodo di studio durissimo e in tre ci trasferimmo a vivere da uno di noi che viveva da fuori sede a Via Mezzocannone: io ero l'addetto al caffè, manco a dirlo.
Un pomeriggio ci raggiunsero alcune ragazze che si unirono per la preparazione di un'interrogazione, chimica credo. Ad un certo punto crollai dalla stanchezza e mi addormentai sulla poltrona: mi risvegliò la ragazza della quale ero sempre stato perdutamente (e inutilmente) innamorato con un timido e casto bacio e un caffè. Quel sapore, si capisce, non lo scordai più.

E così negli anni è continuata questa storia d'amore col caffè. All'università, quasi divenne una droga. Proprio non riuscivo a farne a meno, e anche oggi che ho smesso anche di fumare, regolo la giornata e le sue pause sul caffè.
Appena ho iniziato a viaggiare, ho dovuto accettare l'idea che solo a Napoli c'era quello che per me era 'caffè'. E inoltre c'era un caffè italico, al limite della decenza, e un caffè del resto del mondo che era veramente offensivo. Ho imparato a berlo, certo, ma mentalmente mi sono dovuto imporre che quella è una bevanda scura che impropriamente hanno chiamato 'caffe'.

Una sera, nel 1989, mi presentai a Londra, d'improvviso, per una storia che dovevo chiudere, con una busta nella quale avevo messo 1/2 kilo di spaghetti, 1 kilo di mozzarella, 2 baci perugina e una moka. Cucinai per lei un piccola cena napoletana, chiusa dal caffè. Fu per me una cena amara per certi versi, ma meno male che portai il caffè.

Nel 1996, mi sono trasferito con mia moglie negli USA. Portammo con noi il caffè e la moka e ben presto cominciammo a preparare caffè a ripetizione per gli amici che ci venivano trovare. Erano tempi in cui 250 gr di caffè italiano in USA potevano costare anche 20$. Ben presto chiedemmo rifornimenti in Italia !
Dovemmo poi rieducare gli amici americani che lo bevevano come fosse il loro caffè quindi in quantità notevolissime e poi ci confidavano che non riuscivano a dormire.

I ricordi legati al caffè sono tanti e non riuscirei a chiuderli qui brevemente. Due però sono quelli più cari. Uno, abbastanza recente, fu il caffè preso al bar del Policlinico con il dottore che aveva fatto nascere nostra figlia in condizioni rocambolesche. Fu un momento di silenzio in cui ognuno ripercorreva i fatti accaduti e i rischi evitati.
Ogni sorso di caffè era un ringraziamento alla buona sorte.

L'altro, 1980, fu un incidente d'auto che vide coinvolto me con 4 amici. Una stupidissima pioggerellina aveva reso l'asfalto molto viscido e seppure la velocità della nostra 127 fosse bassa, l'amico che guidava perse il controllo dell'auto. Invademmo l'altra corsia e l'auto si ribaltò più volte fino a coricarsi sul fianco. Uscimmo dall'apertura che il parabrezza aveva lasciato rompendosi e ognuno guardò gli altri negli occhi: solo qualche graffio. Un miracolo, ancora oggi non me lo spiego se non con una legione di angeli custodi.
Nessuno parlava. Uno di noi tirò fuori il pacchetto di sigarette e ognuno accese la sua. Le prime parole furono: "Che facciamo ora ?"
Ci fu una sola risposta: "Vediamo se riusciamo a prendere un caffè!"


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