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lunedì 31 agosto 2015

"Il sacrificio di un uomo raro" (G. Carillo)

Sono fortunato anche nell'avere ottimi amici: Gennaro è uno di questi. 
Il suo commento odierno è da brividi. 






Gennaro Carillo, "Il sacrificio di un uomo raro".
Il Mattino, 31 Agosto 2015

Per quanto rari, esistono uomini-ginestra. Aprono crepe nella lava fredda dell’indifferenza, assumendo su di sé il dolore degli altri. Una ginestra, scrive Leopardi nella sua ultima canzone, «consola» il deserto, lo interrompe, lo contraddice, gli resiste. Ad attenderla, tuttavia, c’è un destino di sconfitta e di morte: il fiore soccomberà alla «crudel possanza» del fuoco che desertifica.

Anatolij Korol, muratore ucraino di trentotto anni e tre figli, era un uomo-ginestra. Ha reagito a una rapina, in un supermercato di Castello di Cisterna, ed è stato freddato da un colpo d’arma da fuoco. Quando si è accorto che uno dei rapinatori minacciava una cassiera, non ha potuto fare a meno di intervenire. L’istinto di operare il bene a tutti i costi, di fare la cosa giusta, ha prevalso sull’impulso naturale alla conservazione della vita. Su quell’impulso a sopravvivere che è il movente primario delle nostre azioni e che ci esonera dal rispondere di quanto accade agli altri.

Anatolij non ha agito come tutti, come un «io minimo», pavido e curvo su se stesso, capace solo di contare i secondi che lo separano dalla fine dell’incubo. La regola di prudenza che prescrive di distogliere lo sguardo, quella regola che interiorizziamo fin dall’infanzia e che ci paralizza di fronte ai devastatori di una stazione ferroviaria o ai molestatori di un vecchio, lui non l’ha osservata. Ritenuta inaccettabile la violenza minacciata a un proprio simile, peraltro più debole, l’ha deviata su di sé, rendendola concreta. E rendendo altrettanto concreto, stringente, quel vincolo di solidarietà dal quale noi invece ci sentiamo sciolti.

C’è una bellezza semplice nel sacrificio e nel dono di Anatolij. La cui esistenza non era quella di un uomo illustre ma di un lavoratore anonimo e straniero, come ce ne sono tanti. Uno degli stranieri che contribuiscono alla nostra economia, spesso ripagati con salari indegni e guardati con diffidenza, additati come predatori del lavoro degli italiani. Non è difficile immaginare l’operosità di Anatolij, temprata nel silenzio liturgico e virile che accompagna il lavoro nei cantieri, nelle officine o nei campi. Né è difficile credere a chi ha subito detto che «il padrone gli voleva bene».

Aveva molto da perdere, Anatolij. Non era uno che potesse mettere in gioco la vita donandosi a piene mani e venendo a mancare a quella famiglia che dava un senso a tutta la sua esistenza. Eppure non ha esitato a farlo. Mi viene in mente una pagina di Rousseau dove si dice che in fondo sono gli ultimi, i più umili, gli scarti dell’organismo sociale, coloro che si precipitano a sedare le risse di strada, che si frappongono tra i contendenti e finiscono quasi sistematicamente per avere la peggio. La larghezza nel donare la vita non è affatto appannaggio dei signori. Sono gli Anatolij che si sacrificano per noi. Imitando Cristo, ma senza saperlo, e mettendoci di fronte alla nostra assuefazione all’ingiustizia. Al nostro essere complici della «impietrata lava».

Non si ripeterà mai abbastanza che Anatolij era uno straniero e che ha trovato la morte a migliaia di chilometri da casa. Era dunque, secondo l’accezione classica del termine, un «barbaro». Ebbene, che un barbaro c’impartisca una lezione di rivolta etica e ci dica chi siamo o chi siamo diventati, dovrebbe indurci a riconsiderare il nostro rapporto con chi arriva nel nostro paese. 

A mettere in discussione i nostri pregiudizi.

Non passa giorno in cui non si provi disgusto per l’umanità, per il male che uomini sono in grado di fare ad altri uomini. Ecco perché bisogna esser grati ad Anatolij, uomo-ginestra: «al cielo / di dolcissimo odor mandi un profumo, / che il deserto consola».

domenica 2 agosto 2015

orizzonte

Torno da un viaggio lungo, stancante e intenso. Ero al centro delle Montagne Rocciose, in Colorado. Una notte in preda al fuso, che non ho mai assimilato nei giorni che sono stato lì, sono uscito dalla camera dell'albergo e ho camminato per qualche minuto. Poi mi sono fermato e ho alzato la testa: un'immagine difficile da dimenticare. Lo sguardo poteva andare da est a ovest, da nord a sud in una calotta celeste che mai avevo concepito così.

Un panorama mozzafiato in cui lo splendore della natura sottostante e del cielo sovrastante erano una sola cosa. Pensavo che quella visione racchiudeva molto dei miti americani, ma poi ho smesso di fare il sociologo da quattro soldi. Ho pensato che quella visione mi interrogasse. Su chi ero, chi ero stato e chi avrei voluto essere. Le persone che amavo e che mi amavano erano tutte lì con me, così come le difficoltà, i piccoli successi, i tragitti accidentati e anche una fede non sempre convinta e testimoniante. Insomma una vita.

Me lo sono goduto a lungo quell'orizzonte notturno silenzioso, con quella luna piena e una fetta di cielo immenso. Sono tornato pensando che forse avevo ricevuto un altro regalo dalla vita, un momento di bellezza perfetta che mai saprò spiegare con parole ma che conserverò con cura.



Dice, un mio amico che usa le parole molto meglio di me, che la vita in un'ultima analisi è una questione di orizzonti.
Orizzonte è una parola bellissima.